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Poniamo tu stia chiacchierando amabilmente con un gruppo di persone conosciute da poco. La conversazione procede piacevolmente finché uno di loro si rivolge a te utilizzando il pronome personale sbagliato. Accade più volte.
Per tutta la conversazione. Ecco, ora fermati un attimo. Senti quello strano disagio? Bene. Prendilo, moltiplicalo per dieci e avrai sperimentato cosa vuol dire essere non binary oggi in Italia.

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Magari c’entra qualcosa con tutti quegli asterischi, “e al contrario” e chiocciole che hai visto utilizzare dai tuoi amici su Instagram.

Ma ha senso porre tanta attenzione su un fattore linguistico aspettando che la cultura le vada dietro? O al contrario è proprio cambiando le parole della nostra lingua che potremo ambire ad una cultura più inclusiva? Se lo stanno chiedendo in tanti, noi inclusi. Abbiamo girato la domanda a diversi anonimi interlocutori, che chiameremo Pinco Panco, le Ostrichette, e lo Stregatto.

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Le Ostrichette

Tra i dibattiti più accesi, come quello sulla nascita dell’uovo e della gallina o sul tè alla pesca o al limone, trova il suo posto anche quello sulla relazione tra lingua e cultura. Quale delle due influenza l’altra? E in che misura?
Questa la domanda che mi pongo ogni volta che incontro un asterisco, una schwa o un qualsiasi altro misterioso segno di interpunzione alla fine di un vocabolo. Ha davvero senso modificare il nostro modo di comunicare in favore di minoranze alle quali, prima ancora dei pronomi corretti, non vengono riconosciuti neanche i diritti più elementari?
Quella che segue è la risposta che mi sono dato dopo aver raccolto i pareri di professori universitari, youtuber, giornalisti, amici ed esimi utenti del web. In questo caso ascoltare anche il ventre del Paese, quello che protegge a spada tratta la propria amata quanto massacrata lingua italiana, può aiutare ad avere un’immagine più chiara.

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Quando studi lingue morte, come il latino e il greco, durante i cinque anni che secondo il resto del mondo dovrebbero essere tra i più leggeri della tua vita, capisci subito che fino alla fine dei tuoi giorni porterai sulle spalle un fardello pesantissimo: cercare l’etimologia di ogni maledetta parola, esattamente come un cane dell’antidroga all’aeroporto di Schiphol.
Io sono partito da “neutro”. In latino, come anche in greco, voleva dire “né l’uno, né l’altro” ed era a tutti gli effetti un genere utilizzato sintatticamente per riferirsi a oggetti così come a individui. Ciò suggerisce uno spettro culturale più ampio e aperto a un pensiero non necessariamente binario, proprio come quello luminoso ai quali estremi potremmo porre il genere femminile e quello maschile. L’italiano invece, come altre lingue latine, non solo ha perso il genere neutro, ma ha adottato l’utilizzo del maschile di default, influenzando di conseguenza il pensiero e la cultura.

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La lingua ha un valore inestimabile, più di un cesto pieno di focaccine dell’Esselunga. Essa non rappresenta soltanto il modo in cui ci esprimiamo, ma riflette nitidamente il modo in cui vediamo e costruiamo le nostre identità. Il suo vocabolario si amplia e si contrae ogni giorno senza che nessuno se ne accorga: anglicismi, colloquialismi, neologismi e molte altre parole che finiscono per -ismi.
Perché quindi ci preoccupiamo tanto ostinatamente di difendere dagli asterischi, brutti e cattivi, una lingua che ci permette di entrare in call, vedere un film o farci un selfie? Il semplice e unico fatto che questa non rifletta più l’identità di tutti i suoi parlanti dovrebbe essere motivo sufficiente alla sua evoluzione. Se Dante si fosse lasciato spaventare dal cambiamento linguistico probabilmente ora starei scrivendo questo articolo in latino.
Spoiler: il mio vecchio prof del ginnasio non ne sarebbe stato per niente soddisfatto.

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C’è chi con i pronomi più adatti ci nasce, ce li ha cuciti addosso e consapevolmente o meno se li porta dietro, c’è chi invece no e allora certi “lui” sono sbagliati e alcuni “lei” inopportuni. È qui che entrano in gioco escamotage linguistici attraverso i quali potersi riferire a qualcuno senza necessariamente etichettarlo, privandolo della propria identità. A dimostrazione di ciò da anni nell’inglese parlato è entrato in uso il singular they e i pronomi neutri xe/xem/xyr, o ancora hen nel norvegese.
Le parole sono simboli e i simboli sono potentissimi, ce lo insegna la storia; la loro combinazione ha la forza di farci sentire sereni o a disagio, anche con noi stessi. Evitare quindi di riferirsi a qualcuno con un pronome maschile o femminile, o semplicemente chiedere quale sia quello più adeguato, può fare la differenza tra il perpetuarsi di un’espressione linguistica che calpesta l’identità di alcuni individui e l’inizio di una cultura più inclusiva in grado di generare un cambiamento non solo linguistico, ma anche culturale.

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Lo Stregatto

Identità di genere: ha portato a discutere persone di ogni età e sta lentamente cambiando il mondo. In Italia si sta pensando persino all’inclusione di una nuova lettera: la schwa. Possiamo includere nella nostra lingua le identità non binary?
Sono una ragazza di 20 anni eterosessuale e binaria, non vivo questi problemi direttamente sulla mia pelle ma ho amici diversi da me. L’affetto che ci unisce mi ha portata a voler approfondire l’argomento, per capire loro e la gente che non riesce ad accettarli.
“È giusto cambiare la nostra lingua costruita in anni di storia per poter includere un nuovo tipo di persone?”, “È giusto cambiare la tradizione?”, “Cos’è la tradizione?”.

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Ho passato l’ultimo periodo ad interrogarmi su queste domande, ho parlato con varie persone, tutte diverse tra loro e mi sono concentrata su un tema: l’identità. Ma cos’è veramente?
Io sono nata donna, mi sono subito riconosciuta come tale. “Sono Panco Pinco, sono una bambina”, ecco la mia prima certezza. I miei genitori hanno contribuito a insegnarmi ciò che secondo loro era giusto e cosa era sbagliato, ed io facendo le mie esperienze ho deciso a cosa credere e a cosa no.
Il problema è nato con il confronto con la società: “Perché quella principessa è tutta rosa? Anche io sono una femmina, mi sento una principessa ma odio il rosa!”, “Perché se sono maschio devo giocare con le macchine e i mostri? A me piacciono le bambole!”, “Perché se sono maschio devo essere più forte delle femmine? Io non ho tanti muscoli, e sinceramente mi vedo meglio così. Non sono un tipo da palestra!”.

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Tutti dopo esserci fatti almeno una tra queste tante domande, percorriamo due strade: o accettiamo la società così com’è e decidiamo di adattarci o facciamo valere ciò in cui crediamo e combattiamo affinché venga accettato, creando nel mondo un posto che faccia per noi.
Chi si adatta e decide di costruire la propria identità su convinzioni radicate nel tempo, come la tradizione, tiene poco conto del progresso, cosa che alle volte rende difficile e addirittura doloroso riuscire ad accettare le diversità.
Detto questo, cambiare la lingua può davvero aiutare a cambiare la mentalità delle persone?
Secondo me prima abbiamo tante cose su cui lavorare e soprattutto credo che il grido di battaglia non dovrebbe essere “cambiamento” ma “accettazione”.
Bisognerebbe semplicemente scavare nella propria storia, negli ostacoli su cui abbiamo dovuto sbattere il naso per diventare le persone che oggi siamo e accettare che non esiste nessuna persona al mondo che non abbia sofferto almeno una volta per la propria identità quindi che ciascuno di noi ha diritto di esprimersi liberamente e trovare un posto che gli calzi a pennello.
Siamo molto più simili di quello che pensiamo.

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Pinco Panco

Non sono sicuro che si parli di fazioni, e che si debba parteggiare, ma sono sicuro che da troppo tempo esista un problema che vada oltre l’aspetto linguistico: l’accettazione del diverso.
Dobbiamo tenere a mente che quando giudichiamo qualcuno diverso da noi, stiamo implicitamente dicendo che anche noi siamo diversi da lui. Quindi siamo davvero sicuri che “diverso” sia un’offesa? Al mondo esistono persone alte, basse, belle, brutte, con gli occhiali o con 5 nasi, perché no!

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Non tutte le differenze però sono visibili ad occhio nudo; alcune di esse scorrono sottopelle. Sono le differenze culturali, linguistiche, identitarie, che invece di unire e generare curiosità, dividono. Dividono con una forza tale da aver preteso dei nomi tutti loro, come razzismo, omofobia, bullismo, misoginia, xenofobia.
Figlie di questi nomi sono le lotte per i diritti, che contraddistinguono fortunatamente i nostri anni. Le persone hanno bisogno di essere prese in considerazione, di affermare la propria identità e lottare per far ascoltare la propria voce, che finalmente sembra trovare un pubblico di ascoltatori sempre più vasto e sensibile al disagio altrui.

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Essendo tutti noi i “diversi” di qualcun altro, forse oggi ci siamo uniti per risolvere ciò che ancora ci separava, in questo caso, la lingua.
La schwa si pone come possibile soluzione: un punto di incontro per tutti, che potrebbe definire chiunque non si riconosca in un’identità di genere binary.
L’introduzione di questo simbolo nel vocabolario ci regalerebbe nuove parole, adatte a rappresentare tutti e ci permetterebbe di avere un punto di partenza per accettare, rispettare, e toglierci dalla testa l’idea del diverso in accezione negativa: un esercizio per oltrepassare l’ostacolo e uscire da una mentalità chiusa e discriminatoria.
Introdurre una lettera, piuttosto che una parola, ad alcuni spaventa, soprattutto perchè cambierebbe la nostra lingua integralmente.

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Quello che mi sento di dire è che non dobbiamo dimenticare che il nostro vocabolario è in costante mutamento: basti pensare agli inglesismi (“triggare”, “blastare” e altre), alle parole nuove (“petaloso”, che in confronto fa molto ridere), e tanti altri torti subiti recentemente dalla lingua dello stivale.
Tra l’altro, per tranquillizzarvi, dopo un’attenta ricerca ho scoperto che la schwa è riconosciuta dall’Alfabeto Fonetico Internazionale, non è un drago che sputa fuoco apparso così all’improvviso così come pensavo.
Per creare una vera unione, rispettare tutti, credo che dovremmo cambiare mentalità, lentamente e costantemente.
Nel frattempo, come il segnale di Batman nel cielo, abbiamo già “un nuovo simbolo” che potrebbe aiutarci.

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